| Presentazione dell'Editore
 Nota dell'Autore
 Avvertenza dell'Autore (al primo volume)
 Avvertenza dell'Autore (al secondo volume)
 Indici dell'opera
 Bibliografia
 
 
 Autocritica e Addenda Alcuni mesi or sono, chiesi ad un notissimo ambasciatore, da 
                poco in pensione, il favore di leggere un capitolo della terza 
                parte di questo lavoro. Esso tratta, con minimo dettaglio, di 
                un argomento ignoto nei suoi particolari agli stessi competenti 
                del problema triestino. Pochi giorni dopo, l'ambasciatore mi telefonò 
                dicendo di aver letto il capitolo in questione come fosse un romanzo. 
                Osservai soddisfatto, ma meravigliato, che consideravo quelle 
                pagine molto noiose, trattandosi, in pratica, di storia diplomatica. 
                L'ambasciatore mi rispose che quanto avevo esposto non riusciva 
                a giungere al livello della storia diplomatica perché essa 
                esigeva l'assoluta completezza della documentazione. Nel caso 
                concreto, per contro, dovevano esistere in qualche cassetto, in 
                qualche armadio o in qualche scaffale del Ministero degli esteri 
                anche alcuni appunti del defunto ambasciatore Casardi, il quale, 
                come me, aveva partecipato a certi incontri di cui il mio lavoro 
                dava il resoconto. Feci presente, allora, al mio illustre interlocutore, 
                che se, per ogni argomento, avessi cercato di arrivare ad una 
                integrale completezza, la mia pubblicazione avrebbe raggiunto 
                non le duemila pagine, già lievemente superate, ma le diecimila. 
                L'ambasciatore, imperturbabile, mi rispose: "Ebbene avrebbe 
                raggiunto le diecimila pagine".Considerai in quel momento, l'affermazione del noto diplomatico 
                come una boutade. Mi accorgo ora che l'ambasciatore aveva perfettamente 
                ragione e che quando io stesso mi auguravo nell'avvertenza al 
                primo volume di questo lavoro era non meno esatto. Mi ero augurato, 
                infatti, che un inglese, un americano, uno jugoslavo, un russo, 
                un francese raccogliessero, per i loro Paesi, documenti più 
                numerosi di quanti io ne avevo raccolti per l'Italia. Sarebbe 
                stato questo il modo per avvicinarsi, il più possibile, 
                alla verità storica attraverso la narrazione dei fatti, 
                sorretta dagli scritti ufficiali, ufficiosi e privati che ci sono 
                pervenuti. Per il periodo che va dal 1941 al 2 maggio 1945 e per 
                quel che riguarda i documenti inglesi e americani, il mio augurio 
                si è avverato per merito di una pubblicazione recentissima, 
                della quale non ho potuto tenere conto, in quanto i risultati 
                di questa mia pluriennale fatica di espositore artigianale di 
                una vicenda storica che io stesso ho vissuto erano già 
                in fogli di stampa. Si tratta del volume di Antonio Giulio M. 
                de' Robertis, La frontiera orientale italiana nella diplomazia 
                della II guerra mondiale, Pubblicazioni della Facoltà Giuridica 
                dell'Università di Bari, Scienze Politiche, Edizioni Scientifiche 
                Italiane, Napoli, 1981.
 Consiglio chi si interessi delle vicende del nostro confine con 
                la Jugoslavia, durante e dopo il secondo conflitto mondiale, di 
                leggere il libro in questione che mette a frutto i documenti ufficiali 
                raccolti dall'autore in America ed in Inghilterra. L'opera del 
                de' Robertis risolve molti dubbi da me lasciati in sospeso nella 
                prima e agli inizi della seconda parte di questo lavoro. L'autore 
                prova, con i suoi documenti, alcune ipotesi che avevo formulato 
                avvicinandomi abbastanza bene alla realtà e dà, 
                purtroppo, non più la sola sensazione, ma la dimostrazione 
                dell'inconsistenza reale delle promesse fatteci dagli Alleati 
                per indurci ad uscire dalla guerra prima della Germania, tenendoci, 
                poi, completamente e volutamente all'oscuro dei loro piani riguardanti 
                l'Italia. Da parte inglese, il desiderio di infliggere una pace 
                punitiva continuò fin che Churchill, nell'aprile 1945, 
                credette di aver constatato come Tito fosse finito nell'ovile 
                di Mosca, quale pecora che, con tutte le altre, si sarebbe dimostrata 
                remissiva ed obbediente. D'altro canto, nella guerra da noi dichiarata 
                alla Gran Bretagna, i morti inglesi erano stati un quarto di milione, 
                tra soldati e marinai, e questo non poteva venire facilmente dimenticato 
                dall'opinione pubblica britannica, malgrado il nostro rovesciamento 
                di alleanze.
 Il lettore, nel libro del de' Robertis, troverà notizia 
                dei veri limiti della promessa britannica al governo di Belgrado, 
                nel marzo a941, che era stata mantenuta nel vago e non fissava 
                il nostro confine all'Isonzo, com'era stato auspicato e radiodiffuso 
                dal gabinetto jugoslavo in esilio, provocando l'intervento di 
                Sforza; troverà che la linea di spartizione della Venezia 
                Giulia tra Tito e gli Alleati, che Eden doleva discutere a Yalta, 
                nel febbraio 1945 - linea non accolta dagli americani e glissata 
                dai russi, che aveva anche un nome, linea "Malkin" - 
                era quela che fu poi detta "della Dragogna", dal fiumiciattolo 
                che sbocca nella baia di Pirano ed era, perciò, ben poco 
                diversa dalla linea Morgan; troverà che il territorio libero 
                di Trieste costituiva una delle ipotetiche soluzioni britanniche 
                del problema giuliano già nel 1942 e che non apparve, perciò, 
                all'orizzonte come una inattesa novità soltanto nel 1946; 
                e troverà tante e tante altre notizie interessanti, sfiorate 
                od ipotizzate soltanto nelle pagine del primo di questi due volumi. 
                Dato che un italiano, il de' Robertis, ha usato il materiale inglese 
                ed americano, resta vivo il mio auspicio che qualcuno possa servirsi 
                di quello russo e di quello jugoslavo, visto che gli archivi francesi 
                devono essere stati esaminati, anche se poco sfruttati, dal Duroselle. 
                Se il professore di Bari continuerà i suoi studi, sarà 
                interessante conoscere i retroscena anglo-americani del tempo 
                delle conferenze per la pace, dopo aver letto quelli che io ho 
                potuto illustrare in questo lavoro.
 Non posso non accennare anche ad un altro libro che tocca un periodo 
                da me trattato, volontariamente, in modo superficiale: la Conferenza 
                della pace che seguì la prima guerra mondiale. Mi riferisco 
                al volume di Maria Grazia Melchionni, La vittoria mutilata. Problemi 
                ed incertezze della politica estera italiana sul finire della 
                grande guerra (ottobre 1918 - gennaio 1919). Raccolta di studi 
                e tesi a cura di Gabriele De Rosa. Edizioni di storia e letteratura, 
                Roma 1981. L'autrice ha svolto, e svolgerà in altri futuri 
                volumi, un tema già ampiamente discusso in numerose pubblicazioni 
                di altri, dal 1919 in poi; ma ha contribuito con materiale inedito, 
                usato per perfezionare gli studi precedenti attraverso rettifiche, 
                precisazioni, aggiunte, osservazioni critiche e commenti originali. 
                Anche in questo caso, il lettore vedrà che, nei miei due 
                volumi, gli abbozzi tracciati si inquadrano coerentemente nella 
                dettagliata pittura elaborata dalla Melchionni.
 Dopo aver letto con somma attenzione i due libri ora citati, che 
                sono a mio modesto parere, saggi di vera storia diplomatica, mi 
                sembra necessario chiedermi come possa essere definito il contenuto 
                di questi miei due volumi. Il lettore abbia la cortesie di scorrere 
                l'"Avvertenza" al primo di essi e si renderà 
                conto del modo disordinato, direi, in cui questo lavoro è 
                stato compilato; esso è stato, inoltre, stampato, man mano 
                che veniva scritto, durante gli ultimi sei anni. Credo che il 
                contenuto di alcuni capitoli possa venire considerato come storia 
                diplomatica vera e propria, seppure limitata per buona parte ai 
                soli documenti italiani. Non penso che il resto rientri nella 
                storia politica, la quale si estende ad orizzonti ben più 
                vasti e comprende problemi più generali e più complessi. 
                Qualche squarcio può essere qualificato come memorialistica, 
                dato che dal 1944 al 1954, ho vissuto, quasi giorni per giorno, 
                la cosiddetta questione di Trieste, nella quale ho svolto compiti 
                diversi, in anni diversi, anche a contatto con qualcuno dei principali 
                protagonisti del campo italiano. Talvolta, lo scritto scende alla 
                cronaca ed illustra quegli avvenimenti di carattere locale che 
                ebbero forti riflessi sulla situazione internazionale, influendo 
                sulla soluzione del problema triestino. Altre volte, il discorso 
                assume un tono di pacata ma aperta e velata polemica contro affermazioni 
                di qualche autore o nei riguardi idi mosse nostre od altrui. Tutto 
                sommato, si tratta soltanto di una "Personal Narrative" 
                cioè di un racconto che ha una impronta ed una Anschauung 
                personali sulla questione giuliana.
 Perciò vorrei pregare il lettore, e soprattutto i veri 
                storici, di essere indulgenti verso di me: se il lavoro non fosse 
                già stampato ed io non avessi l'età che grava sulle 
                mie spalle, lo scriverei da capo. Chiedo che mi si accordi soltanto 
                il merito di aver raccolto del materiale che sarebbe andato parzialmente 
                disperso, di aver messo in carta i ricordi della mia esperienza 
                relativa alla vita allora vissuta e, spero, anche l'altro merito 
                di aver riprodotto, abbastanza fedelmente, la Stimmung delle speranze, 
                il senso dei giudizi, il modo di vedere gli avvenimenti che, con 
                diverse sfumature, avevamo in quei tempi lontani.
 Lo scrivere queste pagine ha avuto, per me, il significato di 
                ripercorrere, in vecchiaia, una parte della mia giovinezza e della 
                mia maturità e quello di ritrovarmi ancora, spiritualmente, 
                nella compagnia di persone che non sono più tra noi; so 
                di essere uno dei ben pochi superstiti tra coloro che ebbero grandi 
                o piccole parti nella questione di Trieste. Dipende, forse, da 
                questo mio legame quasi visivo con le persone del passato il fatto 
                che io citi per cognome e non impersonalmente per la carica coperta 
                i mille e cinquecento attori, grandi e piccoli, del dramma giuliano. 
                Ma credo che sia bene usato il nome. Non è di poco rilievo 
                il fatto che il Presidente del Consiglio dei Ministri, sia De 
                Gasperi o, invece di lui, un altro uomo politico, anche illustre; 
                non è priva di significato la circostanza che il Primo 
                Ministro inglese si chiami Winston Churchill o Clement Attlee 
                o che i Presidenti americani siano Roosevelt, Truman od Eisenhower. 
                Ma credo che, in me, agisca più la forza del ricordo che 
                quella del ragionamento, che farebbe preferire la carica alla 
                persona. Concludendo, credo e temo che, al lettore, non possa 
                sfuggire il legame sentimentale che intercorre tra il problema 
                di Trieste ed il modesto compilatore di questi due volumi.
 D.d.C. |